L’identità italiana in cucina

fichiMassimo Montanari, L’identità italiana in cucina, Laterza, Roma-Bari 2010 (Il nocciolo), pp. 98

Anche il cibo partecipa alle celebrazioni che quest’anno salutano i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. E per farlo non può che affidarsi alla penna arguta di Massimo Montanari, il quale ne traccia la storia come elemento di identificazione nazionale. Questo piccolo libro, già oggetto di varie segnalazioni e recensioni, si presenta con undici brevi saggi che sono altrettante tessere narrative di assai piacevole lettura. Prende così forma un mosaico che illustra il percorso attraverso il quale le peculiarità della cultura alimentare e gastronomica della Penisola avrebbero via via contribuito alla elaborazione di un carattere identitario tipico della cucina “italiana”: l’attributo è significativamente e correttamente virgolettato, essendo di fatto improponibile, per la realtà storica del nostro Paese, l’idea di una cucina nazionale, e dunque unitaria, come quella che si riscontra in altre realtà europee, a partire dalla Francia. L’Autore indica la “diversità” come elemento distintivo della “identità nazionale italiana”, una identità che deve essere vista proprio nella sua pluralità: quella “identità della diversità” che – come ha scritto Walter Barberis – costituisce il carattere specifico della società italiana, quindi anche della vita materiale e dello stesso “gusto” degli italiani (Il bisogno di patria, Einaudi, Torino 2004, 2010).

Il discorso di Montanari prende le mosse dai primi esempi di letteratura gastronomica dei secoli XIII-XIV, meridionali e toscani, che attestano la circolazione di tecniche, gusti e prodotti alimentari, e giunge ai numerosi ricettari del Novecento, attraversando la rinascimentale Opera di Bartolomeo Scappi (1570), cuoco alla corte pontificia, e la mai dimenticata sintesi del patriota mazziniano Pellegrino Artusi (La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, 1891).

La formazione di “un modello alimentare ‘italiano’, durato – secondo Montanari –  fino ai giorni nostri in alcuni suoi aspetti di fondo” (p. 7), ebbe inizio già nel corso del basso medioevo, quando nell’Italia centro-settentrionale il governo cittadino esprimeva il proprio carattere territoriale. Uno “stile” alimentare e gastronomico, che procede “per reti di città” e che appare come il risultato di scambi e ‘contaminazioni’ tra culture diverse: l’esito dell’incontro, tanto interessante quanto originale, tra cultura popolare e cultura di élite, ovvero tra cucina orale e cucina scritta, quale riflesso dello specifico tipo di rapporto, tutto italiano, tra campagna e città. Mediante la valorizzazione gastronomica, ad esempio, di un cibo tradizionalmente considerato “da villani”, quale è la verdura, nella prima età moderna l’Italia fornisce un contributo importante alla costruzione di un patrimonio culinario nel quale trovano spazio tradizioni e saperi di ogni componente sociale: piatti popolari compaiono sulla tavola dei ricchi signori, mentre alcune ricette della cucina di questi ultimi vengono imitate dai ceti più modesti.

Se a metà del secolo XVI, nel Commentario delle più notevoli e mostruose cose d’Italia… di Ortensio Lando, la geografia gastronomica italiana è limitata a specialità tipiche di alcune aree del Centro-Nord (in particolare salumi, formaggi e confetture), dal Seicento in poi anche il Piemonte sabaudo entra a pieno titolo nel “sistema alimentare italiano”, proprio quando si va estendendo l’uso della pasta secca, a cominciare da Napoli. Consumata nel Mezzogiorno in quantità crescente, come alternativa alla penuria di cibi comunemente diffusi quali ortaggi e carne, la pasta – peraltro già nota nel medioevo arabo-siciliano – andrà assumendo nel secondo Ottocento “un valore ancora più ampio di italianità” (p. 53): per diventare con i sovrani sabaudi un vero e proprio “stereotipo nazionale”, in ragione di un preciso progetto politico-culturale.

Un sistema alimentare quello italiano che, fedele alle consuetudini ma non del tutto refrattario alle novità, assimila a poco a poco cibi sconosciuti in Occidente. Nel medioevo accoglie e utilizza prodotti provenienti dal mondo arabo e da civiltà orientali o africane (zucchero, spezie, riso, agrumi). Più tardi si appropria di alcuni frutti della terra originari del Nuovo Mondo, quali mais, patata, pomodoro: piante guardate a lungo con diffidenza, che vengono coltivate e adottate in cucina soltanto dal Settecento in poi, quando occorrerà affrontare situazioni di fame endemica. In un contesto di regimi alimentari monotoni, fondati essenzialmente sul consumo di granaglie e derivati, in particolare pasta e pane, le conseguenze della ridotta disponibilità di derrate cerealicole tradizionali non possono che essere macroscopiche: e ciò soprattutto nei territori nord-orientali della Penisola, dove – come è noto – si diffonde per compensazione la monocoltura maidica con la conseguente affermazione di un’altra dieta ancor meno varia della precedente.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento, al processo di unificazione politica dell’Italia si accompagna quella che viene definita “l’invenzione delle cucine regionali”; nella loro varietà si individua, “per così dire, l’altra faccia della ‘nazionalizzazione’ gastronomica” rispetto all’opera di Artusi, il quale persegue l’idea di unificare l’Italia negli usi gastronomici proprio attraverso l’arte culinaria, restituendo però l’immagine di una cucina che è di fatto il risultato di “una rete ‘italiana’ di saperi culinari” di varia origine, ancorché condivisi (p. 78). Tuttavia, dal momento che gli enti regionali non sono null’altro che distretti amministrativi, per l’appunto “la cucina delle regioni è un’invenzione che risponde a esigenze politiche, commerciali, turistiche” (p. 80); pertanto sotto il profilo culturale sarebbe indubbiamente più corretto parlare di cucine ‘locali’, ‘territoriali’, ‘cittadine’.

La vera rivoluzione nel modello alimentare italiano si compie negli anni sessanta del secolo scorso, dopo la lunga crisi dell’ultima guerra, quando entrano in cucina i cibi confezionati della moderna produzione industriale. Intanto i media, e in particolare la televisione, contribuiscono ad accelerare la svolta culturale italiana nella direzione di una certa uniformità, che coinvolge le stesse pratiche di cucina e le abitudini alimentari, fortemente modificate anche in seguito alla diffusione di supermercati e ipermercati, nonché all’inevitabile processo di globalizzazione. Ma in Italia, rispetto agli altri paesi industrializzati, tale processo – rileva l’autore – mantiene tuttora il proprio carattere peculiare proprio nella ‘diversità’: vera risorsa degli italiani, che si manifesta con il richiamo alle antiche tradizioni locali, oggi più che mai rivalutate e spesso rivisitate, anche come strumento di valorizzazione del territorio in chiave enogastronomica.

Irma  Naso

25 gennaio 2011

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