I volti della cucina

FOTO COPERTINA CAMPANINI

Antonella Campanini, I volti della cucina. Dispute antiche e moderne tra arte e natura, Carocci edizioni, Roma 2021, pp. 109.

Poche realtà sono ricche di contenuti culturali e implicazioni valoriali quanto il cibo, che si costituisce come fulcro di reti culturali e sistemi simbolici. Si può quindi desumere, senza rischiare di destare eccessive perplessità, che anche la cucina si carichi di una altrettanta mole di significati e, conseguentemente, di problematiche. Ad aumentare la complessità del vissuto culturale che una società sviluppa nei confronti della cucina, non possiamo che ricordare come questa sia al tempo stesso modo di relazione con la natura, dunque più in generale con il reale che ci circonda, con la società e con l’identità, in tutte le sue possibili articolazioni. Il testo di Antonella Campanini, I volti della cucina, edito da Carocci, ha il coraggio di puntare al cuore di tutto questo complesso sistema, declinando storicamente la problematizzazione di temi che sono, peraltro, ancora (o nuovamente) attuali.

Il testo si organizza in cinque capitoli, che costituiscono cinque interconnessi medaglioni, attraverso i quali siamo accompagnati nella ricostruzione di come l’interpretazione della cucina sia sempre stata attraversata da opposizioni dialettiche e movimenti confliggenti. Così si può iniziare da molto lontano, una lontananza temporale e ideale: quella dell’età dell’oro e del paese di Cuccagna. Nella prima, una proiezione fuori dal tempo e immaginata dalla cultura più alta, il cibo si autoproduce, o addirittura si trasforma da sé. Questa capacità di autoprepararsi, al di là di come avvenga, implica, sottolinea l’autrice, l’assenza di violenza sulla terra, quella violenza che è invece inflitta dalle azioni degli agricoltori. In questo contesto Antonella Campanini sottolinea come le persone si nutrano, ma non mangino. Si tratta, in altri termini, di un mangiare frugale, peraltro in linea con quella classe alta del mondo classico dal cui ventre l’età dell’oro è nata. Il paese della Cuccagna, al contrario, è il sogno dei poveri. Qui il cibo è abbondante ed elaborato. Un’elaborazione che, però, avviene ancora una volta in modo autonomo, senza che qualcuno debba affaccendarsi per cuocere, pelare o tritare, pur non mancando alcune eccezioni, nelle quali, in ogni caso, chi prepara e lavora è «persona comunque differente dal fruitore finale». Gli alimenti qui non sono più quelli frugali e modesti della nobile età aurea, ma sono cibi grassi, arrosti, dolci, con abbondanti quantità di vino che accompagna il tutto. L’età dell’oro era caratterizzata da un cibo «brado», mentre nel popolare paese di Cuccagna ci si nutre di cibo più evoluto. In queste costruzioni culturali popolari compaiono anche i cuochi: non si stratta, come si è supposto, di una novità caratteristica di un nuovo momento, che Camporesi definisce «età dell’arte», ma di una figura già presente in precedenza, come nel racconto della storia di Campriano. Da un lato, quindi, l’età dell’oro, in cui la natura è lasciata ai suoi ritmi, alla sua innocenza, senza che l’uomo le usi violenze agricole, dall’altro lato la Cuccagna, in cui la cucina prende il sopravvento sulla natura. Il problema, che da qui in poi sarà al centro delle riflessioni dell’autrice, si pone in tutta la sua importanza: il sopravvento della cucina sulla natura è un disastro o è lo sviluppo di una nuova arte?

Ovviamente, lo abbiamo in parte già visto, non può svilupparsi una riflessione sulla cucina senza che vi rimanga, in qualche modo, coinvolto anche il suo artefice, il cuoco. Proprio al cuoco viene dedicata l’ampia trattazione successiva, nella quale si ripercorrono le trasformazioni nella comprensione del suo ruolo e della sua funzione. Al contempo, si delinea l’evoluzione della cucina, dalla cucina sintetica medioevale a quella analitica francese, dalle cucine delle case nobiliari, alla cucina delle case borghesi. Si tratta di una ricostruzione che passa in rassegna i ricettari, ma anche opere letterarie o testi di medicina, per restituire l’immagine di uno sviluppo “professionale” del cuoco, nell’evoluzione di una cucina che sempre più vuole essere un’arte, o una scienza; un’evoluzione che fatica, però, a farsi accogliere da una società spesso diffidente, quando non esplicitamente avversa, che vede in una nobilitazione del ruolo culinario un pericolo: il cuoco è alleato della tentazione, tanto nella sua declinazione morale, quanto nella sua declinazione sociale o, ancora, salutistica.

Strettamente legato al tema della cucina, della pericolosità di salse e prelibatezze, della alterazione della natura è, quindi, il terzo tema: la dialettica tra eccesso e misura. Nella tradizione cristiana gli eccessi gastronomici sono sempre stati visti con sospetto, addirittura con sgomento, lasciando spazio ai piaceri del corpo. La cucina e il cuoco, in questo panorama, non possono che essere considerati come complici della gola, rendendo essi più difficile, per il povero peccatore, resistere alla tentazione alimentare. Inoltre l’abbondanza può creare problemi sotto il profilo sociale, sia perché banchetti troppo sontuosi possono essere facilmente interpretati come uno spreco, sia perché possono essere causa di disordine sociale, quando a permetterseli sono nuovi ceti di arricchiti e non le più antiche aristocrazie. Ancora, eccesso significa mettere a repentaglio la salute e la cucina, con le sue stravaganze, spezie esotiche e leccornie, è un pericolo da cui è bene guardarsi. Così per ridurre la degenerazione dei costumi, i disordini sociali e i disordini fisiologici la ricetta è una: moderazione, il che implica ridurre la presenza del cuoco. Il diffondersi delle leggi suntuarie tenta proprio di andare in questa direzione.

Questi temi non vedono la propria fine con il medioevo, ma confluiscono nell’illuminismo, al cui centro si pone la celebre Encyclopédie. In particolare si prendono in considerazione due termini: condimento e cucina. L’autore delle due voci, Jaucourt, condanna la cucina e la sua arte, che destabilizza l’equilibrio umorale, portando come esempio di massima depravazione il ragù, un personaggio che comparirà più volte nella ricostruzione offerta da Antonella Campanini. Contrari all’eccesso, gli illuministi vedono nel ragù il simbolo della degenerazione, della natura fatta a pezzi, il contrario di quella frugalità che andrebbe invece raccomandata. Dunque, una cucina che nel suo farsi arte si allontana dalla natura e, per questo, merita di essere condannata.

Esistono però «differenti prospettive», come viene intitolato il capitolo stesso: Brillat-Savarin, ad esempio, che stringe l’una all’altra gastronomia e scienza, aggiungendo quest’ultima ai concetti che abbiamo fatto ruotare finora intorno alle cucine, soprattutto quelli di arte e natura. Brillat-Savarin, come altri prima di lui, vede l’origine dei piaceri gastronomici a Oriente, passati poi all’Occidente attraverso la Grecia e Roma. Al contrario dei suoi predecessori, però, vede in questo passaggio da est a ovest un elemento positivo in cui nella cucina si sposano arte e scienza, disperso con l’arrivo dei barbari e poi faticosamente ricostruito. Si tratta, in sintesi, dell’alleanza di arte e scienza per far star bene i propri ospiti. Anche l’immancabile Pellegrino Artusi accosta l’arte alla scienza, senza però preoccuparsi troppo del rapporto con la natura, nonostante il riconoscimento positivo del valore della naturalità ed enfatizzando la cucina come arte a portata di tutti.

In conclusione il volume I volti della cucina ci accompagna in un percorso attraverso la storia del rapporto dell’uomo con se stesso: un rapporto con sé mediato dalla cucina, come forma di espressione umana che interviene sulla natura, appropriandosene e utilizzandola, scientificamente o artisticamente che sia. Riflettere, quindi, sulla cucina, sulla dialettica sempre presente nella sua interpretazione e collocazione culturale, significa riflettere sull’uomo, sul suo lavoro, richiamando peraltro quella ricchezza simbolica, come dicevamo, che accompagna sempre e in ogni caso il cibo. Guardando alla cucina possiamo così vedere come in filigrana – oltre all’importanza del tema in sé l’agitarsi delle identità, la concezione delle gerarchie sociali e culturali, ma anche il mutare dei sistemi valoriali di riferimento e l’evolversi dell’estetica. Al tempo stesso il tema può offrire interessanti spunti di riflessione e di sviluppo su come anche la concezione del lavoro si costituisca come uno degli sfondi su cui si può leggere l’interpretazione di quella particolare forma di lavoro che è la cucina. Il testo di Antonella Campanini ci guida in questo percorso, senza sacrificare alla chiarezza dell’argomentazione, sempre presente, il riflesso di quella complessità che rende così affascinante occuparsi di quello che mangiamo e, soprattutto, del modo in cui lo facciamo.

Federico Chiara

23 novembre 2021

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