Francesca Stroppa, Rassegna convegno “De fructibus. Storia, pratiche, linguaggi”, Torino, Accademia Albertina delle Belle Arti, Salone d’onore, 21-22 novembre 2011.
Il convegno «De fructibus. Storia, pratiche, linguaggi», tenutosi a Torino presso l’Accademia Albertina delle Belle Arti, il 21 e 22 novembre 2011, vede l’organizzazione e il coordinamento scientifico di Irma Naso, in collaborazione con Enrico Basso. L’iniziativa congressuale, patrocinata dall’Università di Torino e dal CESA – Centro studi per la storia dell’alimentazione e della cultura materiale “Anna Maria Nada Patrone” e sostenuta dal Comune di Guarene, dall’Associazione culturale Antonella Salvatico, centro internazionale di ricerca sui beni culturali, e dalla Pinacoteca comunale di Roero, sviluppa tre macroaree di studio relative al tema in esame: “produrre e regolamentare”, “interpretare e consumare” e “raffigurare, riprodurre, raccontare”.
Durante la prima sessione, presieduta da Giovanni Panjek (Università di Trieste), sono stati inquadrati gli ambiti di indagine della produzione e della regolamentazione del prodotto agricolo. L’analisi di Osvaldo Failla (Università di Milano) apre i lavori congressuali gettando lo sguardo sulle biodiversità nelle specie arboree da frutto, sui meccanismi biologici della domesticazione della frutta e sull’interazione dell’uomo – fattore determinante di “selezione” – nella storia evolutiva delle piante. Di seguito Isabella Dalla Ragione dimostra come l’archeologia arborea possa divenire esperienza di ricerca e strumento utile al mantenimento e alla conservazione di antichi frutteti, operando nell’individuazione e nella catalogazione delle specie in aree territoriali marginali come zone di collina o di montagna, poderi abbandonati e conventi, e impiegando nell’indagine anche il sostegno della storia, degli studi di riproduzioni pittoriche, di antiche mappe e del territorio. L’esperimento del “giardino degli alberi perduti” ha avuto luogo nella tenuta di San Lorenzo di Lerchi, a Città di Castello, dove è stato creato un frutteto da collezione (382 varietà) le cui piante, coltivate con i sistemi tradizionali e con la tecnica dell’innesto, sono state inserite in un contesto che recupera le suggestioni del paesaggio agricolo. In tal modo sono state protette vecchie varietà fruttifere in estinzione come la pera bracciola, la mela muso di bue, il fico permaloso, i peschi di Papigno e tante altre. Chiude la prima sessione di lavori la relazione di Alfio Cortonesi (Università della Tuscia) che offre una prospettiva ad ampio raggio sulla produzione di alberi da frutto in Italia, tra XII e XV secolo, e analizza l’impatto della coltivazione arboricola sulla natura e sul paesaggio. Dal Duecento si vede aumentare il consumo di frutta in particolare nei ceti urbani e in quelli benestanti: infatti, si riscontra nelle fonti la presenza di orti e giardini nelle case nobiliari dove alberi da frutto sono coltivati per il rifornimento della mensa; tuttavia non viene riscontrato solo l’aspetto sussistenziale, ma anche il valore redditizio della merce, utile persino come dono. Dalla documentazione presa in esame la pratica arboricola si dirige in questo lasso temporale verso la coltivazione di fichi, mele, pere, ciliegie, pesche, susine, melograni, sicomori, castagne, cedri, arance amare e dolci (dalla fine del XV secolo). Non emerge tuttavia la peculiarità della coltura intensiva, ma questa appare nebulizzata in alcuni punti della città: le fonti ne attestano la presenza intra o extra moenia, nei viridaria e, grazie agli statuti, si rintracciano alberi da frutto negli orti, appoggiati alle mura urbiche, nelle carbonaie della città, o con funzione di sostegno per le viti. Cortonesi conclude la dissertazione con una carrellata di esempi sparsi nella penisola dalle varietà di agrumi – con alcune testimonianze, di età moderna, della presenza dei limoni sulle sponde del Benaco – alle piante di fico coltivate in Sardegna.
La seconda parte della mattinata, presieduta da Gabriella Piccinni (Università di Siena), prosegue con due interventi di carattere normativo. Giuseppe Gullino (Università di Torino) registra le tipologie di albero da frutto rintracciate tra XIV e XVI secolo negli statuti piemontesi e in particolare negli estimi di Costigliole Saluzzo. Dai documenti selezionati non compaiono frutteti, tuttavia la vite e il castagno ritornano costantemente e assumono in alcuni casi funzione toponimica, utile per designare posti e luoghi. Particolare attenzione nell’indagine è stata assegnata alla tutela degli alberi da frutto e alle norme adottate e registrate dalle fonti, in modo specifico ai tipi di danneggiamento come l’abbattimento, l’incendio, lo scortecciamento e la scalvatura. Interessante appare il riferimento al furto che prevedeva una pena pecuniaria, solo se la quantità di frutta rubata era superiore a quella che poteva stare nella mano del ladro, forse una sorta di tutela per pellegrini e poveri. Vengono esplicitati altri tipi di sanzioni fino alla pena di maggior entità, ossia quella inflitta per il taglio delle viti, che veniva punita con la forca. Il danneggiamento era visto come una offesa o una ritorsione, quindi se si riferiva a proprietari di grandi possedimenti, il gesto assumeva un forte valore politico. Infine sono indicate dallo studioso le norme che favorivano la coltivazione di alberi fruttiferi, con forme di diversificazione di colture che garantivano il cibo per l’intero corso dell’anno. Francesco Aimerito (Università del Piemonte orientale) si occupa dell’aspetto prettamente giuridico, raccogliendo i dati dalle fonti normative degli statuti sabaudi in età moderna (XVII-XIX secolo) su frutta e piante da frutto. Partendo dalla differenza semantica tra “frutto” naturale e “frutto” civile, individua esempi piemontesi in cui emergono le disposizioni giuridiche intorno alla regolamentazione arboricola: si esaminano bandi politici – riguardanti la città – e quelli campestri – relativi alla campagna – nelle cui norme ritorna regolarmente il tema dell’alimentazione legato ai prodotti del territorio. Si rintracciano prescrizioni nelle quali si indicano le risorse arboricole, si disciplina la vendita di beni di consumo (importazione ed esportazione), si tutela l’ordine nei mercati, si legifera sull’igiene pubblica e si tratta della figura dei “fruttaroli”, annotazione che implica la presenza di una coltivazione di frutta piuttosto organizzata, se si avverte l’esigenza di una regolamentazione. Il giurista, inoltre, approfondisce l’argomento mostrando un’ampia casistica rintracciata nei bandi campestri di Canale, Merasco, Saluzzo, dell’Alessandrino e della Lomellina – entrati tardi nel Regno sabaudo – come pure di Tortona. Nelle norme prese in esame, oltre ad identificare le essenze coltivate, si stila una gerarchia dei prodotti con relativa sanzione pecuniaria per furti o danneggiamenti. Il percorso si conclude alla metà del XIX secolo, quando nel 1859, con l’introduzione della legge Rattazzi, scompaiono i bandi, sostituiti dai regolamenti comunali rispetto ai primi più astratti e meno descrittivi, e quindi fonti povere di dati utili alla ricerca. Chiude la sessione della mattina Alessandro Carassale (Associazione Laboratorio StArT AM) con un’indagine sulle varietà e sulle regolamentazioni di raccolta degli agrumi in Liguria. Annotazioni sulla presenza di limoni, cedri, arance amare e dolci, ecc., in area ligure, si trovano già da prima delle norme statutarie di fine XV secolo. Sul territorio costiero l’esistenza di una normativa disciplinava in modo omogeneo i guadagni derivanti dalla raccolta degli agrumi: il primo regolamento agrumario di Sanremo gestisce l’irrigazione dei campi con appositi canali, fissa il divieto di transitare all’interno delle coltivazioni e sancisce disposizioni relative ai compratori, in particolare agli ebrei che, per la festa delle capanne (Sukot), erano impegnati ad acquistare tanti cedri quante foglie di palma. Il quadro piuttosto articolato si chiude con la prima età moderna che vede la nascita di normative complesse per la tutela del prodotto.
La seconda sezione del convegno si sviluppa seguendo due filoni. Il primo, presieduto da Pinuccia Simbula (Università di Sassari), indaga il tema della frutta dedicato alla “interpretazione” e distinto da approfondimenti di carattere lessicale e letterario. Marilyn Nicoud (Université d’Avignon) tratta del ruolo della frutta nella letteratura medico-dietetica tra XIII e XV secolo: gli esempi citati vanno dal trattato Diaetae Universales di Isaac Israeli († 955), tradotto dal monaco Costantino l’Africano, al Liber canonis medicinae di Avicenna (980-1037), fino ai più tardi Compendium de naturis et proprietatibus alimentorum di Barnaba de Riatinis († 1365 circa), De regimine sanitatis di Antonio Benivieni (1443-1502), Regimen sanitatis di Bernardo Torni (1452-1497). I testi selezionati sviluppano tematiche legate agli alimenti e ai rispettivi effetti sul corpo umano: un capitolo è riservato alla frutta che, fin dal medioevo, non viene considerata tanto come cibo quanto come medicinale. Il valore aggiunto del prodotto consisteva nel suo uso terapeutico e solo successivamente sarà apprezzato anche per le qualità gustative. Laura Prosperi (Università di Milano) presenta i risultati emersi dall’analisi relativa alla terminologia dei “pomi” al fine di creare una banca dati basata su fonti tardo-medievali e rinascimentali per individuare le classificazioni prescientifiche. Le testimonianze fanno riferimento a raccolte di tipo enciclopedico, come lo Speculum naturale di Vincent de Beauvais (1190-1264), il De vegetalibus et plantis di Alberto Magno (1206-1280), il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico (XIII secolo), l’Opus de natura rerum di Thomas di Cantimpré (1201-1272), fino ai volgarizzamenti del trattato di agricoltura di Pier de’ Crescenzi (1233-1320). I raggruppamenti scelti seguono categorie – quali caratteri morfologici, stagioni riproduttive, finalità farmacologiche, utilità (come odore, colore, ecc.) – che, per i secoli XIII e XIV, non si fondano su criteri rigorosi e scientifici, bensì ricorrono a paramenti disomogenei e distinti da unità tassonomiche soggettive. Termina questa sezione Marina Montesano (Università di Messina) con un intervento dall’impostazione mitologico-letteraria. La studiosa, partendo dalla favola di Biancaneve dei fratelli Grimm, ripercorre il significato simbolico del frutto della mela, attraverso le saghe celtico-britanniche e quelle del ciclo arturiano, fino a giungere all’identità lessicale latina tra i termini mela e male (malum) che indica parzialmente le origini della scelta iconografica connessa al tema del peccato originale. Il contributo si conclude con altri esempi di frutta ricchi di riflessioni simboliche che nascono dal colore o dalla morfologia: come il melograno, che sottolinea l’ossimoro tra morte e vita, o come la banana – frutto sacro nei percorsi di pellegrinaggio verso la Terra Santa – nella cui anima si intravede la linea del crocifisso. Il secondo filone, guidato da Enrico Basso (Università di Torino), ha visto l’approfondimento del tema relativo agli usi alimentari della frutta. Gabriele Archetti (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) presenta un ricco e articolato studio sul consumo di “poma” in ambito monastico durante l’età medievale e suggerisce riflessioni nate dall’analisi dei testi delle regole dei padri e delle vite dei santi tra Oriente ed Occidente dall’età tardo antica a tutto il medioevo. Lo studioso rintraccia precise indicazioni sul consumo di frutta nel severo regime alimentare dei padri del deserto – Antonio, Ilarione, ecc. – o degli asceti, descritti nella Storia Lausiaca, traendo spunti anche dalle consuetudini dei monasteri orientali (typika bizantini), come pure da quelle dei claustra occidentali, ad esempio Montecassino, Fruttuaria, Cluny e Fonte Avellana. L’ampio quadro sulle norme alimentari del mondo monastico – con riferimenti anche a quelle specifiche e meno rigide per i pueri oblati indicate già da Ildemaro nel secolo IX – indaga la funzione del cibo non solo come sostentamento del corpo, ma anche come nutrimento dell’anima. La dissertazione sviluppa in particolare proprio l’aspetto simbolico assunto dal cibo in taluni contesti, indicando osservazioni legate alla tradizione allegorica della frutta – come l’uva (e il vigneto), le mandragole, il melograno o il pomo proibito dell’albero paradisiaco del bene e del male – e rintracciandone la presenza nei passi veterotestamentari e nei brani della regola di Abelardo, dei sermoni di Bernardo di Chiaravalle e delle lettere di San Pier Damiani.
Chiudono la sessione i contributi di Antoni Riera Melis e di Maria Angeles Perez Samper (Universitat de Barcelona). Il primo, attraverso le fonti documentarie, tratta del ruolo della frutta nella cucina medievale catalana e andalusa. Lo studioso si sofferma sulle teorie dei medici musulmani riguardanti la frutta, ritenuta pessimo alimento dal punto di vista nutrizionale, ma ottimo come rimedio medicamentoso: il prodotto, nel corso del tempo, acquista un valore gastronomico importante a tal punto da divenire fonte di piacere, degno di essere presentato e gustato a tavola come primizia. La seconda relazione concentra l’attenzione proprio su questo ultimo aspetto: attraverso fonti iconografiche e testimonianze documentarie, come il Libro del arte de cozina (1607) di Hernandéz de Maceras o l’Arte de cozina, pasteleria, vizcocheria y conserveria (1611) di Francisco Martinez Motiño, rintraccia la presenza della frutta nei banchetti della corte spagnola in età moderna. In particolare l’attenzione viene orientata sulla figura di Motiño, a capo delle cucine della dinastia asburgica spagnola, che utilizza nelle ricette in modo consueto la frutta in abbinamento con carne e uova o come antipasto finale.
Il secondo giorno dei lavori congressuali – aperto dal presidente dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, Marco Albera, e concluso dalla coordinatrice scientifica dell’iniziativa Irma Naso (Università di Torino) – ha visto l’interesse concentrarsi su tre punti: il primo storico-artistico della “raffigurazione” della frutta, il secondo di carattere tecnico sulla “riproduzione” plastica del prodotto naturale e il terzo di correlazione tra testo e immagine. Ada Quazza (Archivio di Stato di Torino) mostra un’ampia serie di sequenze iconografiche tratte dai tacuina sanitatis e dai libri d’ore nelle cui scene si individua l’elemento-frutta come unità decorativa: viene posta l’attenzione su alcuni particolari caratterizzati da forti correlazioni cristologiche, come l’uva, la fragola, ecc. Ave Appiano (Università di Torino), invece, segnala alcune raffigurazioni di frutta e cibo – ad esempio il formaggio – nelle ricche scene di nature morte di ambito fiammingo e di origine italiana dei secoli XV-XVI. Conclude la sezione di indagine delle fonti artistiche l’intervento di Allen J. Grieco (Harvard University Center for Italian Renaissance Studies di Firenze) relativo a collezioni di frutta nel XVI e nel XVII secolo: lo studioso indica puntuali riproduzioni pittoriche attinenti a ville signorili caratterizzate da grandi parchi al cui interno si individuano coltivazioni di alberi da frutto – come peri, cedri, ecc. – di maggiore o minore estensione che assumono i connotati di frutteto o di hortus conclusus. La relazione riprende infine il tema delle collezioni, annotando significative osservazioni sulle nature morte – composte di frutta – specificandone funzioni simboliche, percezioni sensoriali (visive, olfattive e gustative), individuandone tipologie e varietà e, da ultimo, precisandone i contesti storici di produzione.
L’ambito della “riproduzione” è affidato a Tommaso Eccher (Università di Milano) con un’articolata riflessione sulla pomologia artificiale e sulla figura di Francesco Garnier Valletti (1808-1889). Questi, dopo una lunga esperienza di modellatore di fiori, indirizza i suoi interessi verso un nuovo soggetto, la frutta, a seguito della sua attività presso le corti reali d’Europa e della richiesta, da parte delle nuove scuole professionali istituite a Torino, di raccolte scientifiche artificiali utili per la didattica e per la scienza agronomica. L’abilità di ceroplasta conduce Garnier Valletti a nuove sperimentazioni e il suo manoscritto Raccolta di ogni sorta di segreti costituisce la testimonianza di un lavoro costante finalizzato alla creazione di una ricca collezione «di pomologia» capace di illustrare la gamma di frutta coltivata negli stati regi. Eccher ripercorre le fasi del lavoro di Garnier Valletti fondato sul sapere positivo, sulla documentazione scientifica, sulla classificazione, sull’osservazione della natura e sull’utilizzo dei disegni preparatori. Dopo gli esempi illustri di ceroplastica e di modellismo pomologico del XVIII secolo, per realizzare il corpo dei frutti, Garnier Valletti sostituisce la cera con una miscela composta di resina (colofonia), cere naturali e gesso. La superficie, invece, è costituita da colofonia, cera e dammar, resina usata nella fabbricazione delle vernici pittoriche: il composto, malleabile a caldo, diventa resistente e durevole, una volta raffreddato. La tecnica studiata dal modellatore torinese consente di utilizzare più volte lo stesso stampo per produrre oggetti seriali che, derivando dal calco di un frutto vero, risultano perfette imitazioni di quelli naturali, caratterizzati da particolari estremamente realistici come l’aggiunta degli acheni per le fragole o dei vinaccioli per gli acini d’uva. Paolo Rosso (Università di Torino) si occupa del binomio immagine e parola nei testi letterari presentando alcuni casi molto noti, come quello del trattato di gastronomia, De honesta voluptate et valetudine, dell’umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (1421-1481), che trascrive le ricette di maestro Martino da Como (XV secolo), il celebre cuoco al quale si deve la stesura del ricettario De arte coquinaria. Si riprendono così le riflessioni gastronomiche del Platina relative alla frutta e alle verdure, e in particolare si approfondiscono alcune considerazioni connesse al sostegno che la buona cucina può garantire all’equilibrio fisico dell’uomo. Infine conclude la giornata di lavori Alberto Capatti (Università di Scienze gastronomiche), il quale delinea la figura ottocentesca di Pellegrino Artusi (1820-1911), rimarcando l’attività commerciale della sua famiglia (prima a Forlimpopoli e poi a Firenze) e con ampi rifgerimenti alla sua raccolta di ricette La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891). Il manuale di cucina è frutto della conoscenza acquisita in numerosi viaggi nel nord e nel centro Italia e delle sperimentazioni culinarie di Francesco Ruffilli e di Marietta Sabatini, cuochi di casa Artusi. Il contributo di Capatti termina indicando alcune curiosità legate alla grande produzione dell’azienda come quella dei gelati alla frutta.
Annotazioni e riflessioni di insieme e di collegamento tra i numerosi temi emersi dalle relazioni vengono sviluppate da Maria Serena Mazzi (Università di Ferrara) che conclude i lavori, mettendo a fuoco alcuni aspetti inediti delle indagini presentate dagli studiosi e contestualizzando il ruolo della frutta come spazio autonomo di ricerca.
all’interno della disciplina della storia dell’alimentazione.
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